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dai GIORNALI di OGGICARD. MARTINO: GAZA come un CAMPO di CONCENTRAMENTO 2009-01-08 |
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per l'articolo completo vai al sito http://www.corriere.it2009-01-07 Card. Martino: "Gaza assomiglia a un grande campo di concentramento" "Se non si mettono d’accordo, qualcun altro deve sentire il dovere di farlo". Israele: "Parla come Hamas" Il cardinale Martino(da Justpax.it) Il cardinale Martino(da Justpax.it) ROMA - "Gaza assomiglia sempre più a un grande campo di concentramento". Lo ha detto il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace, in un'intervista a Ilsussidiario.net. "L’alternativa al dialogo è solamente il ricorso alla forza e alla violenza. Ma la violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq", ha dichiarato il cardinale accusando l'amministrazione americana di George W. Bush. "La diplomazia della Santa Sede sapeva bene Saddam era pronto ad accettare le richieste delle Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare". "PAGANO SEMPRE GLI INERMI" - "Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia", secondo Martino. "A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più a un grande campo di concentramento. SOLUZIONE - "Israeliani e palestinesi sono figli della stessa terra e bisogna separarli, come si farebbe con due fratelli", spiega Martino. "Ma questa è una categoria che il "mondo", purtroppo, non comprende. Se non riescono a mettersi d’accordo, allora qualcun altro deve sentire il dovere di farlo. Il mondo non può stare a guardare senza far nulla. Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, si sono fatte tante proposte ma i veti hanno sempre prevalso. Ora anche Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile". ISRAELE: "IL CARDINALE PARLA COME HAMAS" - Israele ha denunciato le affermazioni del cardinal Renato Raffaele Martino accusandolo di utilizzare termini "della propaganda di Hamas". Lo ha detto il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Igal Palmor. 07 gennaio 2009
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REPUBBLICA per l'articolo completo vai al sito http://www.repubblica.it/2009-01-08 "Gaza, un campo di concentramento". Duro, durissimo il polemico giudizio del cardinale Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, espresso nell’intervista di Luigi Geninazzi, inviato del quotidiano cattolico "L’Avvenire" che è apparsa il 7 gennaio nel sito del giornale online ilSussidiario.net. Ve la ripropongo. Mentre il conflitto tra Israele e Hamas va avanti con rinnovata ostilità, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica strada possibile per costruire la pace in Terra Santa. Secondo il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, la soluzione più ragionevole rimane quella del dialogo tra israeliani e palestinesi. Essi sono fratelli, figli della stessa terra. Purtroppo "nessuno vede l’interesse dell’altro. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. E a pagare sono sempre le popolazioni inermi. Impariamo dall’Iraq". Eminenza, nella sua omelia del 1° gennaio Benedetto XVI ha affermato che la vera pace è "opera della giustizia" e che "anche la violenza, l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – da combattere". Perché il dialogo è l’unica condizione della pace? "L’alternativa al dialogo è solamente il ricorso alla forza e alla violenza. Ma la violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq. Cosa ha risolto? Ha complicato le cose. La diplomazia della Santa Sede sapeva bene che Saddam era pronto ad accettare le richieste delle Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare. In Terra Santa vediamo un eccidio continuo dove la stragrande maggioranza non c’entra nulla ma paga l’odio di pochi con la vita. Abbiamo appena celebrato i trent’anni della mediazione tra Cile e Argentina, di cui la Santa sede a suo tempo fu grande promotrice. Quello è stato un frutto del dialogo". Che cosa manca nello scenario mediorientale per intraprendere la strada del dialogo? "Un senso più acuto della dignità dell’uomo. Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento". Eminenza, durante l’Assemblea plenaria del Consiglio Giustizia e Pace, commentando la Populorum progressio, Lei affermò "non c’è sviluppo senza un disegno su di noi e senza noi come disegno"; e che per questo lo sviluppo non è "qualcosa di facoltativo, ma un dovere da assumere". Alla luce degli ultimi avvenimenti che compiti impone questa considerazione? "Abbiamo appena celebrato i quarant’anni della stupenda enciclica di Paolo VI Populorum progressio, dove Paolo VI ha detto che "lo sviluppo è il nuovo nome della pace". Benedetto XVI non ha mancato di richiamarlo nel suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace. Se si vuole costruire la pace occorre favorire lo sviluppo, non solo lo sviluppo dei paesi ma quello personale, di ogni uomo. La stessa assistenza alle nazioni in via di sviluppo non può essere un’elemosina, ma dev’essere un partenariato, un aiuto a far divenire tutti protagonisti del proprio sviluppo. Solo così l’aiuto a tutti può diventare aiuto allo sviluppo di ciascuno. Questo vale naturalmente anche e soprattutto per il Medio Oriente". Come interroga la coscienza di un cristiano quello che accade in Terra Santa? Come mai questa terra, molto più di altre, appare lontana dalla pace e ogni tentativo di raggiungerla sembra frustrato in partenza? "Non siamo solamente noi cristiani a chiamarla Terra Santa, ma anche ebrei e i musulmani. E sembra una disdetta che proprio questa terra debba essere il teatro di tanto sangue. Ma occorre una volontà da tutte e due le parti, perché tutte e due sono colpevoli. Israeliani e palestinesi sono figli della stessa terra e bisogna separarli, come si farebbe con due fratelli. Ma questa è una categoria che il "mondo", purtroppo, non comprende. Se non riescono a mettersi d’accordo, allora qualcun altro deve sentire il dovere di farlo. Il mondo non può stare a guardare senza far nulla". Nonostante le continue esortazioni delle diplomazie, prevale una sensazione generalizzata di impotenza. "Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, lì si sono fatte tante proposte ma i veti hanno sempre prevalso. Ora ho sentito che anche il presidente Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile. Per cominciare sarebbe una misura efficace. Se venisse la pace tra palestinesi e israeliani, sarebbe un beneficio inestimabile per tutto il Medio oriente". Quale compito spetta ai cristiani in quella terra martoriata? "Testimoniare la loro unità. In tutto il Medio Oriente i cristiani stanno perdendo la speranza e hanno cominciato ad andarsene, soprattutto dall’Iraq. Quando ero a New York, alle Nazioni Unite, ho incontrato moltissimi rifugiati negli Usa che mi dicevano: che futuro potevo io assicurare ai miei figli? È un grido di dolore al quale è difficile dare una risposta. Lo può fare solo la speranza che viene dalla fede. Ma al mondo questo non importa e sta a guardare". I cristiani, ai quali quella terra appartiene al pari di ebrei e musulmani, pagano un prezzo alto ma silenzioso. Perché? "Ogni anno sono troppi i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i missionari, i laici che perdono la vita nell’esercizio della missione più cristiana di tutte, quella di aiutare i sofferenti e i bisognosi. Perché i cristiani alla fine soffrono più degli altri? Per l’apertura del cristianesimo a considerare tutti come fratelli, mentre l’estremismo islamico non ammette né conversioni né altra religione che la propria. E questo è fonte di inimicizie e violenza". Nota biografica. Il cardinale Renato Raffaele Martino è nato a Salerno nel 1932. Ordinato sacerdote nel 1957, si è laureato in Diritto canonico. È entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 ed ha lavorato presso le Nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Nel settembre 1980 è stato promosso arcivescovo e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei; è stato ordinato vescovo dal cardinale Agostino Casaroli. Nel 1986 diviene osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite di New York. Nell’ottobre 2002 Giovanni Paolo II gli ha affidato la guida del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ed è stato creato cardinale durante il concistoro del 21 ottobre 2003.
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